Il nostro piccolo Pietro è stato concepito con inseminazione assistita dopo anni di tentativi.
Dopo aver saputo che il primo tentativo aveva funzionato, eravamo tanto contenti da non crederci.
Il piccolo Pietro è nato il 29 Ottobre 2004.
Abbiamo vissuto i nove mesi di gravidanza sapendo che, con l’arrivo del frugoletto, la nostra vita sarebbe cambiata: avremmo dovuto rispettare i suoi orari per la pappa e per la nanna. Avremmo dovuto cambiare abitudini evitando i posti troppo affollati, ecc….
Pietro cresceva: era un bambino vivace ma buono, giocava, correva, chiacchierava e, come tutti i bambini, faceva i capricci. Insomma ci faceva compagnia. Venerdì 10 Febbraio, una sera come tante, sono venuti i genitori di Simone a mangiare la pizza. Pietro faceva i capricci e non voleva mangiare la sua pappa. Verso le 20.30 gli ho messo il pigiamino e, fra scherzi e coccole (fatte solo dalla mamma perché da altri non ne voleva), è andato a nanna.
Il maledetto sabato 11 febbraio ci alziamo alle 7.00. Simone si prepara per andare in ufficio e non ci preoccupiamo se Pietro non è ancora sveglio perché, qualche volta, dormiva fino a tardi. Facciamo colazione e quando Simone va per salutarlo mi chiama per farmi vedere che dormiva con il sederino alto. Lo chiamo pianino e scherzando dico “non si sveglia non sarà morto?”. Cretina. Una frase così potevo risparmiarmela e quando ci penso mi faccio schifo. Prendo Pietro in braccio e lo sento freddo e rigido. Con le macchie del sangue fermo in viso. Mi metto a urlare e piangere. Simone per “fortuna” non entra in panico e telefona subito al 118, ma invano: aveva capito cos’era successo, e i medici arrivano e non fanno altro che constatare il decesso. Per prassi arrivano anche i Carabinieri perché Pietro è morto in casa, ma non indagano oltre perché si aspetta il referto dell’autopsia. Arrivano anche le pompe funebri, ma io scioccata non parlavo, non piangevo, rimanevo a fissarlo scuotendo la testa e pensavo a cosa era successo, che era colpa mia e che non lo avevo protetto abbastanza.
Quando mi dicono che devono portarlo via, comincio a urlare e a piangere lo chiamo e non voglio che vada via senza di me. Con lui era morta una parte di me, volevo morire, volevo restare con il mio bimbo e tutti quelli che, standomi vicino, mi dicevano “capisco il tuo dolore” mi davano solo fastidio.
Il silenzio che dominava la casa in quei giorni era ossessionante: non c’erano più giochi sparsi dappertutto, non c’erano più cubetti di legno sotto i mobili, e neppure la sua mucchetta consolatrice nascosta dietro il divano. Non c’era più Pietro.
L’autopsia negò cause esterne al decesso di Pietro, e così giovedì 16 febbraio si celebrò il funerale. Vedere il mio piccolo nella bara bianca, vestito con un pile azzurro, i jeans con i tasconi da fighetto e le scarpe bordeaux e blu, mi fece cadere ancora più in depressione, non parlavo e non piangevo, lo fissavo e basta. Tutti mi dicevano di piangere, di sfogarmi, ma io non ci riuscivo perché il mio bambino non doveva vedermi piangere. Simone è stato più bravo, lui piangeva (e lo fa liberamente anche oggi), ha avuto la forza di reagire anche per me, di andare avanti a piccoli passi.
I giorni successivi quello che faceva più male erano i commenti stupidi della gente. Ci additavano come se avessimo fatto qualche cosa di brutto, ci guardavano con aria compassionevole. Poi il tempo passa e ti rendi conto che sono solo voci di voci di voci, e forse non era tanta cattiveria ma solo parole dette e riportate male. Girava voce che avremmo voluto vendere e cambiare casa (cosa che non abbiamo intenzione di fare).
Desideravamo altri figli oltre a Pietro, ma dopo il “fatto” non ne volevo sentir parlare. Simone, per fortuna, mi a fatto capire quanto era grande la mia voglia di maternità e che l’amore che potevo dare a un altro bambino non poteva essere di più di quello che avevo dato a Pietro. Non ero sicura di affrontare un’altra gravidanza e, per questo, abbiamo avviato le pratiche per l’adozione. Non sapevo che da lì a poco sarei stata di nuovo incinta e, dopo 6 mesi, il tribunale dei minori ci ha ritenuti momentaneamente non idonei. Nel frattempo le “cattiverie” della gente, dicevano che ci eravamo gia consolati. Questo mi faceva male, ma ho imparato a ignorare.
Il giorno che Pietro avrebbe compiuto due anni eravamo, come sempre, a trovarlo al cimitero. Oltre alla tristezza si aggiunge anche un gran senso di colpa: neppure nove mesi ed ero già incinta e lo sto già dimenticando.
E poi di nuovo l’11 febbraio: l’anniversario.
La pancia, intanto, cresceva e con lei le mie paure (sarò capace di crescerlo senza essere troppo apprensiva? Farò i confronti? Lo chiamerò con il nome sbagliato? Non sarà un sostituto di Pietro?) e Simone continuava a ripetermi che sarei stata capace di amare un altro bambino come amavo Pietro.
Più passava il tempo e più le paure diminuivano, e cominciavo a fare progetti, quando poi ero alla fine non vedevo l’ora che nascesse.
Intanto, dopo aver telefonato a mezzo nord Italia (ma, abbiamo scoperto, ci è andata bene!), arriva il referto definitivo dell’autopsia: SIDS (o meglio SUDC).
Con 8 giorni di ritardo, il 18 giugno, finalmente nasce Alice. È la seconda cosa più bella della nostra vita (seconda solo per ordine cronologico, naturalmente).
Appena l’ho vista, mi sono messa a piangere e non credevo di poter essere ancora felice. È piccola, però mi sta dando la forza che, con la morte di Pietro, non pensavo di avere più.
GRAZIE PIETRO
GRAZIE ALICE
P.S. di Simone: forse io ho più senso pratico, ma la vera roccia, in famiglia, è Silvia!!